Palestina nell’Unesco: Un’occasione persa - di Aldo Sofia
di Aldo Sofia
[La Regione - 11/02/2011]
In questa storia della Palestina ammessa all’Unesco, e quindi riconosciuta in quanto Stato da una delle più importanti Agenzie delle Nazioni Unite, c’è un’altra occasione mancata.
Mancata dagli Stati Uniti. Mancata da Obama. Mancata da un presidente americano già in campagna elettorale. Quindi ancora più remissivo nei confronti di Israele, e del peso, in voti e influenza, della comunità ebraica statunitense.
Già all’inizio di ottobre, respingendo la richiesta del riconoscimento dello Stato palestinese, e preannunciando il suo veto al Consiglio di sicurezza, la Casa Bianca aveva fatto cadere le ultime ambiguità, le ultime speranze di un concreto cambiamento di rotta dell’ex superpotenza. Obama come i suoi predecessori, quindi: a capo di un’America assolutamente incapace, e disinteressata, ad assumere il ruolo di arbitro onesto nell’infinito contenzioso che le due parti, abbandonate a se stesse, da due decenni di inutili tentativi non riescono a incanalare verso un progetto di soluzione pacifica.
Gli errori commessi in un ventennio dalla leadership palestinese, all’origine della sua debolezza, sono noti e più volte denunciati: dalla seconda Intifada (quella armata, che oltretutto non aveva alcuna possibilità di successo, e per finire ha alimentato le fortune della destra nazional-religiosa israeliana) alla lacerazione interna, che ha prodotto il conflitto Anp-Hamas, mai veramente superato. Ma è proprio su questa debolezza che Israele ha poi pensato di vivere di rendita. Di poter eternizzare uno statu-quo apparentemente favorevole. E ha agito di conseguenza.
Ha svuotato di significato qualsiasi approccio negoziale; ha regolarmente indebolito la posizione di Abu Mazen, che pure è il leader più moderato e “responsabile” nella storia della resistenza palestinese; ha continuato e continua nella politica dei fatti compiuti, perseverando nell’illegale colonizzazione dei territori occupati e soprattutto di Gerusalemme Est; ha pervicacemente osteggiato, soprattutto con Netanyahu, la “soluzione dei due Stati” (lungo le linee del 1967, con eventuali modifiche e relative compensazioni), l’unica in grado di ottenere consensi anche nel mondo arabo.
Ma improvvisamente questa rendita si è come sfarinata. La grande illusione di poter campare in eterno sulla debolezza del nemico ha subito un violento scossone. Per effetto di scossoni a catena. Di cui Israele è stato fin dall’inizio un testimone preoccupato. Se non angosciato.
Pur nel loro incerto esito, le primavere arabe scalzano infatti dittatori sostenuti e armati dagli Stati Uniti anche per favorire lo “statu quo” nei confronti dello Stato ebraico; gli assalti all’ambasciata israeliana del Cairo confermano quanto sia stata fin qui gelida la pace fra Egitto e Israele, e quanto può cambiare qualora si affermassero governi più democratici e meno disposti a dimenticare-strumentalizzare la causa palestinese; la Turchia che nel nuovo contesto medio-orientale cerca influenza politica (il suo modello di “islam democratico” sembra fare scuola) e ghiotte opportunità economiche abbandona il lungo partenariato con Israele, privandolo così di un tassello importante nella sua strategia di sicurezza; all’Onu l’idea di uno Stato palestinese auto-proclamato non è più un tabù, e l’ammissione all’Unesco lo conferma.
Così Israele si ritrova in una di quelle fasi di isolamento internazionale non nuove nella sua storia. Ma di nuovo c’è quasi tutto quello che gli sta attorno. Tranne, appunto, il sostegno pressoché acritico degli Stati Uniti. Di Barack Obama.
Un presidente prigioniero delle sue contraddizioni: convinto che i suoi appelli alla democratizzazione del mondo islamico abbiano dato i loro frutti, ma che poi non sa o non vuole gestirne le conseguenze. Con la conseguenza di regalare qualche voto in più al fondamentalismo islamico che laggiù cerca nelle urne il suo riscatto e il suo futuro.
[La Regione - 11/02/2011]
In questa storia della Palestina ammessa all’Unesco, e quindi riconosciuta in quanto Stato da una delle più importanti Agenzie delle Nazioni Unite, c’è un’altra occasione mancata.
Mancata dagli Stati Uniti. Mancata da Obama. Mancata da un presidente americano già in campagna elettorale. Quindi ancora più remissivo nei confronti di Israele, e del peso, in voti e influenza, della comunità ebraica statunitense.
Già all’inizio di ottobre, respingendo la richiesta del riconoscimento dello Stato palestinese, e preannunciando il suo veto al Consiglio di sicurezza, la Casa Bianca aveva fatto cadere le ultime ambiguità, le ultime speranze di un concreto cambiamento di rotta dell’ex superpotenza. Obama come i suoi predecessori, quindi: a capo di un’America assolutamente incapace, e disinteressata, ad assumere il ruolo di arbitro onesto nell’infinito contenzioso che le due parti, abbandonate a se stesse, da due decenni di inutili tentativi non riescono a incanalare verso un progetto di soluzione pacifica.
Gli errori commessi in un ventennio dalla leadership palestinese, all’origine della sua debolezza, sono noti e più volte denunciati: dalla seconda Intifada (quella armata, che oltretutto non aveva alcuna possibilità di successo, e per finire ha alimentato le fortune della destra nazional-religiosa israeliana) alla lacerazione interna, che ha prodotto il conflitto Anp-Hamas, mai veramente superato. Ma è proprio su questa debolezza che Israele ha poi pensato di vivere di rendita. Di poter eternizzare uno statu-quo apparentemente favorevole. E ha agito di conseguenza.
Ha svuotato di significato qualsiasi approccio negoziale; ha regolarmente indebolito la posizione di Abu Mazen, che pure è il leader più moderato e “responsabile” nella storia della resistenza palestinese; ha continuato e continua nella politica dei fatti compiuti, perseverando nell’illegale colonizzazione dei territori occupati e soprattutto di Gerusalemme Est; ha pervicacemente osteggiato, soprattutto con Netanyahu, la “soluzione dei due Stati” (lungo le linee del 1967, con eventuali modifiche e relative compensazioni), l’unica in grado di ottenere consensi anche nel mondo arabo.
Ma improvvisamente questa rendita si è come sfarinata. La grande illusione di poter campare in eterno sulla debolezza del nemico ha subito un violento scossone. Per effetto di scossoni a catena. Di cui Israele è stato fin dall’inizio un testimone preoccupato. Se non angosciato.
Pur nel loro incerto esito, le primavere arabe scalzano infatti dittatori sostenuti e armati dagli Stati Uniti anche per favorire lo “statu quo” nei confronti dello Stato ebraico; gli assalti all’ambasciata israeliana del Cairo confermano quanto sia stata fin qui gelida la pace fra Egitto e Israele, e quanto può cambiare qualora si affermassero governi più democratici e meno disposti a dimenticare-strumentalizzare la causa palestinese; la Turchia che nel nuovo contesto medio-orientale cerca influenza politica (il suo modello di “islam democratico” sembra fare scuola) e ghiotte opportunità economiche abbandona il lungo partenariato con Israele, privandolo così di un tassello importante nella sua strategia di sicurezza; all’Onu l’idea di uno Stato palestinese auto-proclamato non è più un tabù, e l’ammissione all’Unesco lo conferma.
Così Israele si ritrova in una di quelle fasi di isolamento internazionale non nuove nella sua storia. Ma di nuovo c’è quasi tutto quello che gli sta attorno. Tranne, appunto, il sostegno pressoché acritico degli Stati Uniti. Di Barack Obama.
Un presidente prigioniero delle sue contraddizioni: convinto che i suoi appelli alla democratizzazione del mondo islamico abbiano dato i loro frutti, ma che poi non sa o non vuole gestirne le conseguenze. Con la conseguenza di regalare qualche voto in più al fondamentalismo islamico che laggiù cerca nelle urne il suo riscatto e il suo futuro.
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