Egitto: le élite vogliono distruggere l'Islam politico
Al Cairo la borghesia liberale che aveva prima sostenuto e poi mollato Mubarak, ora sta con l'esercito: «I Fratelli Musulmani? Poveracci esaltati. I quasi mille morti? Inevitabili danni collaterali»
L'Espresso, Reportage del 19.08.2013
Androu Abdel Malek mi saluta con entusiasmo tra i tavoli del café Riche, enclave liberale a pochi passi da piazza Tahrir, il Cairo.
Sorriso rotondo sulla una t-shirt rossa, sta conversando con Mohammed Nabaoui, uno dei giovani leader della 'campagna Tamarrod' che ha portato 30 milioni (?) di egiziani in piazza lo scorso 30 giugno aprendo la strada alla deposizione del presidente Mohammed Morsi. «Mi spiace per i morti, davvero, ma erano necessari», si scusa appena mi vede, pronto a reagire ai rimproveri dei giornalisti stranieri di questi giorni in seguito al massacro di 600 tra uomini, donne e bambini compiuto davanti alla moschea di Rabaa a Nasser City mercoledì scorso: «Non c'era altro modo con cui interagire con quei terroristi». Terroristi? Ma Rabaa era una dimostrazione pacifica, come fate giustificare tale violenza?. «Danni collaterali».
Per Abdel, cristiano, nipote del fondatore di café Riche e uno dei ragazzi che ha dato vita a Tamarrod, letteralmente 'ribelle', i militari e le loro pallottole erano l'unica soluzione per mettere fine all'esperimento dell'Islam politico e riportare l'ordine nel paese. «I leader vanno eliminati e gli altri sono dei poveracci esaltati dalla propaganda dei capi. Adesso in Egitto torneranno l'ordine e la prosperità».
Costi quel che costi. Ad Abdel non importa nemmeno se, come annunciato, l'ex dittatore Hosni Mubarak possa essere rimesso questa settimana in libertà dopo che i tribunali egiziani hanno lasciato cadere tutte le accuse contro di lui, incluse quelle di corruzione e di essere il responsabile delle uccisioni dei rivoluzionari del 25 gennaio 2011. «E' un vecchio di ottanta anni malato di cancro, per me può anche essere mandato a casa. Non mi importa».
E con queste parole, a due anni e mezzo dall'inizio della rivoluzione egiziana, a vincere davvero è la controrivoluzione di un establishment stanco forse di Mubarak e delle sue pretese dinastiche per l'inetto figlio Gamal ma non necessariamente di una dittatura capace di preservare i privilegi delle elites e di tenere lontano lo spauracchio di un califfato islamico.
Il nuovo demiurgo d'Egitto, il generale El Sissi, in un discorso in diretta televisiva domenica sera - in sovrimpressione sullo schermo, in alto a sinistra, le parole "L'Egitto in lotta contro il terrorismo" - non ha fatto cenno a nessun segno di rimorso per le ormai 900 vittime della sua repressione militare e si è limitato ad annunciare che i futuro non ha intenzione di tenere il potere tutto per sé.
Ma se le immagini valgono più delle parole allora a dialogare davvero con gli spettatori sono stati i filmati trasmessi dalle due televisioni di stato dopo il discorso, in cui al volto di Sissi si sovrapponeva quello dell'ex carismatico presidente socialista Gamal Abdel Nasser che ha messo fine alla monarchia e instaurato la dittatura nel 1956; in cui le immagini in bianco e nero delle folle adoranti degli anni Cinquanta lasciavano il passo alle immagini aeree dei manifestanti del 30 giugno scorso e alle luci verdi dei laser puntati in segno di approvazione contro gli elicotteri militari sovrastanti le folle di piazza Tahrir.
Lunedì, fuori dal Café Riche, nel centro della capitale del Paese, i negozi hanno riaperto, il traffico ha ripreso più intenso del solito, complici i blocchi stradali imposti dai carri armati distribuiti per la città come fosse un Risico urbano. Sembra abbiano ripreso a circolare perfino le ragazze con la minigonna sui fusaux attillati e sotto l'hijab colorato. Certo si muovono tra percorsi di filo spinato e mitra puntati, le vite costrette tra le sette della mattina e le sette della sera da un coprifuoco intransigente. Ai giornalisti stranieri non è più permesso muoversi liberamente: quando diventano scomodi testimoni viene chiesto loro un accredito stampa che il governo non intende rilasciare e in mancanza del quale i servizi segreti impediscono loro di lavorare.
Molti tra i seguaci dei fratelli musulmani si sono rasati la barba; le donne hanno tolto il niqab, il velo integrale. I leader o sono in carcere o sono latitanti, i loro telefoni muti, le case vuote.
Il capo della coalizione liberale del Fronte per la salvezza nazionale che ha guidato la marcia del 30 giugno, Mohammed El Baradei, premio Nobel per la pace, ha gettato la spugna e, dopo essersi dimesso da vicepresidente, è tornato nella sua casa a Vienna.
A dimettersi, scoraggiato dalle centinaia di morti voluti dai militari e applauditi dai cosiddetti partiti liberali, è stato anche il suo ex portavoce, Khaled Dawoud, un tempo star dei talk show televisivi per le sue posizioni laiche: oggi è isolato e abbandonato dai liberali, tutti concordi nell'appoggio alla violenza usata dai militari. Felici di strappare violentemente il potere ai Fratelli per interposto esercito.
di Federica Bianchi, L'Espresso, Reportage del 19.08.2013
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Androu Abdel Malek mi saluta con entusiasmo tra i tavoli del café Riche, enclave liberale a pochi passi da piazza Tahrir, il Cairo.
Sorriso rotondo sulla una t-shirt rossa, sta conversando con Mohammed Nabaoui, uno dei giovani leader della 'campagna Tamarrod' che ha portato 30 milioni (?) di egiziani in piazza lo scorso 30 giugno aprendo la strada alla deposizione del presidente Mohammed Morsi. «Mi spiace per i morti, davvero, ma erano necessari», si scusa appena mi vede, pronto a reagire ai rimproveri dei giornalisti stranieri di questi giorni in seguito al massacro di 600 tra uomini, donne e bambini compiuto davanti alla moschea di Rabaa a Nasser City mercoledì scorso: «Non c'era altro modo con cui interagire con quei terroristi». Terroristi? Ma Rabaa era una dimostrazione pacifica, come fate giustificare tale violenza?. «Danni collaterali».
Moschea di rabaa |
Costi quel che costi. Ad Abdel non importa nemmeno se, come annunciato, l'ex dittatore Hosni Mubarak possa essere rimesso questa settimana in libertà dopo che i tribunali egiziani hanno lasciato cadere tutte le accuse contro di lui, incluse quelle di corruzione e di essere il responsabile delle uccisioni dei rivoluzionari del 25 gennaio 2011. «E' un vecchio di ottanta anni malato di cancro, per me può anche essere mandato a casa. Non mi importa».
E con queste parole, a due anni e mezzo dall'inizio della rivoluzione egiziana, a vincere davvero è la controrivoluzione di un establishment stanco forse di Mubarak e delle sue pretese dinastiche per l'inetto figlio Gamal ma non necessariamente di una dittatura capace di preservare i privilegi delle elites e di tenere lontano lo spauracchio di un califfato islamico.
Il nuovo demiurgo d'Egitto, il generale El Sissi, in un discorso in diretta televisiva domenica sera - in sovrimpressione sullo schermo, in alto a sinistra, le parole "L'Egitto in lotta contro il terrorismo" - non ha fatto cenno a nessun segno di rimorso per le ormai 900 vittime della sua repressione militare e si è limitato ad annunciare che i futuro non ha intenzione di tenere il potere tutto per sé.
Ma se le immagini valgono più delle parole allora a dialogare davvero con gli spettatori sono stati i filmati trasmessi dalle due televisioni di stato dopo il discorso, in cui al volto di Sissi si sovrapponeva quello dell'ex carismatico presidente socialista Gamal Abdel Nasser che ha messo fine alla monarchia e instaurato la dittatura nel 1956; in cui le immagini in bianco e nero delle folle adoranti degli anni Cinquanta lasciavano il passo alle immagini aeree dei manifestanti del 30 giugno scorso e alle luci verdi dei laser puntati in segno di approvazione contro gli elicotteri militari sovrastanti le folle di piazza Tahrir.
Lunedì, fuori dal Café Riche, nel centro della capitale del Paese, i negozi hanno riaperto, il traffico ha ripreso più intenso del solito, complici i blocchi stradali imposti dai carri armati distribuiti per la città come fosse un Risico urbano. Sembra abbiano ripreso a circolare perfino le ragazze con la minigonna sui fusaux attillati e sotto l'hijab colorato. Certo si muovono tra percorsi di filo spinato e mitra puntati, le vite costrette tra le sette della mattina e le sette della sera da un coprifuoco intransigente. Ai giornalisti stranieri non è più permesso muoversi liberamente: quando diventano scomodi testimoni viene chiesto loro un accredito stampa che il governo non intende rilasciare e in mancanza del quale i servizi segreti impediscono loro di lavorare.
Molti tra i seguaci dei fratelli musulmani si sono rasati la barba; le donne hanno tolto il niqab, il velo integrale. I leader o sono in carcere o sono latitanti, i loro telefoni muti, le case vuote.
Il capo della coalizione liberale del Fronte per la salvezza nazionale che ha guidato la marcia del 30 giugno, Mohammed El Baradei, premio Nobel per la pace, ha gettato la spugna e, dopo essersi dimesso da vicepresidente, è tornato nella sua casa a Vienna.
A dimettersi, scoraggiato dalle centinaia di morti voluti dai militari e applauditi dai cosiddetti partiti liberali, è stato anche il suo ex portavoce, Khaled Dawoud, un tempo star dei talk show televisivi per le sue posizioni laiche: oggi è isolato e abbandonato dai liberali, tutti concordi nell'appoggio alla violenza usata dai militari. Felici di strappare violentemente il potere ai Fratelli per interposto esercito.
di Federica Bianchi, L'Espresso, Reportage del 19.08.2013
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