"Né burqa né divieti" - Tariq Ramadan - 29.10.2013

Intervista a Tariq Ramadan: non escludere, non autoescludersi
Intervista di Paolo Tognina (La Regione del 29 ottobre 2013)



L’imposizione del burqa e la crociata per il suo divieto sono l’immagine di una società che fatica a integrare tradizioni e culture che ormai ne sono componenti affermate. Tariq Ramadan, docente a Oxford e intellettuale ‘islamico’ tra i più ascoltati torna sulla questione, estendendo la riflessione al tema centrale dello scambio e della persuasione, e invitando a non rendere la religione la sola questione di unità o divisione.

«Io non credo che il burqa faccia parte delle prescrizioni dell’islam, e in ogni caso non appartiene alla mia interpretazione dell’islam. Penso che sia il prodotto di una visione letteralista e chiusa». Così Tariq Ramadan, docente di studi islamici all’Università di Oxford, consulente del governo britannico per le questioni legate all’estremismo islamico, autore di numerosi saggi, libri e articoli sull’islam in Europa. Tariq Ramadan è cittadino svizzero, nato e cresciuto a Ginevra, dove si è laureato e ha conseguito un dottorato in islamistica. «Che cosa dobbiamo fare di fronte a delle donne che sono convinte di dover portare il burqa?» prosegue. «Beh, io credo che sia necessario un lungo lavoro pedagogico, di persuasione».

Che cosa sta succedendo in Svizzera? Perché da più parti si spinge per il divieto del burqa? Perché c’è una crescente avversione nei confronti dell’islam?

Quello che sta succedendo in Svizzera è l’emergere di una politica basata sulle emozioni. È una politica che cavalca la paura, che suscita l’impressione di esser colonizzati dagli stranieri e in particolare dai musulmani. E allora vengono proposte leggi che ci danno l’impressione di proteggerci, ma che sono strumenti incapaci di rispondere ai veri problemi. Quello che serve è un lavoro pedagogico. La Svizzera dovrebbe farsi aiutare dai propri cittadini di religione islamica per far sentire una voce musulmana diversa, di persone integrate e con cittadinanza elvetica. Ci sono cittadini svizzeri di fede musulmana che hanno le loro radici in Turchia, in Bosnia, nel mondo arabo… Perché non appoggiarsi a loro per promuovere una politica moderata?

Lei parla dell’emotività della popolazione. Tra la gente c’è paura, sospetto nei confronti dell’islam. Non nei confronti di tutte le persone di fede islamica, ma certamente nei confronti di chi appare fanatico, fondamentalista o estremista. Paure sbagliate, stupide?

No, non si può dire che qualcuno abbia torto di avere paura o che sia stupido perché ha paura. Bisogna analizzare i fatti. Ogni cittadino normale, svizzero o d’Occidente, che segue la televisione, e sente ciò che viene detto dei musulmani, se non ha paura non è normale. Dunque, occorre prendere sul serio la sua paura. Ora però bisogna dire due cose. Quelli che strumentalizzano questa paura per vincere delle elezioni io li detesto. Sono quelli dell’Udc, in Svizzera, del Fronte Nazionale, in Francia, movimenti xenofobi che utilizzano la paura, la ingigantiscono, per vincere le elezioni. In secondo luogo, dico ai miei concittadini svizzeri di confessione musulmana: “Non dovete atteggiarvi a vittime, ripetere che non siete visti in modo positivo, o che la gente è razzista”. Non è vero. Gli svizzeri non sono razzisti, non hanno una tradizione di razzismo. È possibile renderli razzisti, con i mezzi d’informazione, ma in fondo non sono né più né meno razzisti di voi. Sono persone che sanno essere aperte. Tutto dipende dal modo in cui rispondete alle sirene politiche che vogliono vincere le elezioni. È su questo fronte, dico loro, che dovete essere presenti. Bisogna imparare ad assumere atteggiamenti responsabili, non diventare invisibili o silenziosi, ma visibili, in modo positivo.

Che cosa pensa, lei, del burqa? Ritiene che si debba intervenire sull’argomento, o no?

Credo che si debba procedere per tappe successive, e che non si debbano imporre divieti. Nel contempo bisogna dire chiaramente che dove la presenza del burqa solleva problemi di sicurezza, o di accertamento dell’identità, il burqa va tolto. E questo deve avvenire ad esempio alla frontiera, o in ospedale, o alle urne. È necessario poter conoscere l’identità della persona che porta il burqa. In secondo luogo, occorre dialogare con le autorità religiose musulmane locali per affrontare insieme i problemi. Bisogna dare forza alle voci moderate e fare capire ai musulmani che il dialogo e la collaborazione sono importanti. E alle giovani e alle donne bisogna dire che il burqa non è prescritto nell’islam e che è il frutto di un’interpretazione oggi superata.

Nel 2009 il popolo svizzero ha accettato il divieto di costruzione dei minareti. Quattro anni dopo il Ticino approva il divieto del burqa. E l’anno prossimo il divieto del burqa potrebbe essere proposto a livello federale.

C’è un problema di integrazione dei musulmani in Svizzera?

No, c’è un problema costituito dall’accanimento dei partiti xenofobi. La visibilità degli svizzeri di confessione musulmana o dei musulmani che vivono in Svizzera è destinata ad aumentare ancora, è un dato certo, frutto anche di processi migratori. Ora, maggiore è la visibilità della popolazione musulmana e maggiore è l’accanimento dei partiti populisti. La mia critica nei confronti di quei partiti è: “Non avete un vero programma politico, se non quello del rifiuto e del rigetto. E rifiutate, rifiutate… perché non sapete fare altro”. È tempo che noi svizzeri cominciamo a chiederci: “Con chi ce la stiamo prendendo? Con la presenza degli stranieri, o con i nostri stessi principi?”. A furia di chiudere le porte, finiamo col tradire i nostri principi di libertà. Il rischio è quello di far coincidere l’essere svizzeri con il divieto, imposto a una parte della popolazione, di esprimere la propria diversa visione di ciò che significa, o può significare, essere svizzeri.

Lei dice che l’integrazione funziona. Allora, qual è segreto di una buona integrazione?

A lungo ho pensato che per riuscire a integrarsi occorresse considerare le leggi del Paese d’accoglienza come le proprie leggi. Come dice il sociologo Olivier Roy: “La sola cosa che si possa chiedere ai cittadini o ai residenti è il rispetto della legge del Paese in cui vivono”. Ma oggi penso che il rispetto della legge non basti. Occorre andare oltre. Mi sono reso conto che il segreto di un’integrazione riuscita consiste nell’arrivare al punto in cui non si parla più di integrazione! E quando avviene? Quando il rispetto formale della legge cede il passo al sentimento di appartenenza, quando considero il Paese nel quale vivo come il mio Paese. E attraverso quali elementi si realizza questo senso di appartenenza? Attraverso l’apprendimento della lingua, della cultura, dello humour, dell’arte, della storia: gli elementi che mi fanno dire: “Qui sono a casa mia!”. È il principio che io definisco “delle tre L”: rispettare la legge, parlare la lingua, essere leali nei confronti del Paese. Ma quando a scuola si parla della storia del Paese e gli allievi non vengono integrati nella narrazione, quando si parla di “noi, gli svizzeri”, ignorando gli immigrati, allora si crea un fossato. Come possono sentirsi integrati, a casa loro, se quando si parla di “noi”, loro sono esclusi?

Per entrare a far parte di quella che lei chiama la “narrazione comune”, è necessario accettare regole speciali valide all’interno della comunità immigrata? Nel caso dei musulmani, sarebbe necessario, secondo lei, riconoscere ad esempio le istituzioni che regolano certi aspetti della vita di famiglia, come i divorzi, e riconoscere dunque una sorta di pluralismo giuridico?

Non credo. In Canada, nell’Ontario, il problema è stato dibattuto. Lo stesso è accaduto in Inghilterra. E la conclusione è stata un riconoscimento, nel quadro della legislazione comune, per le questioni private, della possibilità di ricorrere a consigli di conciliazione islamici. Ma analizzando la legislazione comune svizzera, ritengo che non ci sia alcun bisogno di ricorrere a queste soluzioni. Inoltre ho visto, in Inghilterra, che i consigli islamici importano delle leggi che sono legate ai Paesi di provenienza dei consiglieri legali musulmani, ma non sono ispirate alla tradizione islamica autentica e sono in contrasto con la legge inglese. Dunque, preferisco attenermi al quadro giuridico svizzero e sono contrario all’introduzione di un pluralismo che finirebbe per danneggiare la stessa comunità musulmana.

Che cosa dovrebbero fare, secondo lei, gli svizzeri non musulmani per favorire il dialogo con i musulmani? E i musulmani, residenti o di nazionalità svizzera, che cosa dovrebbero fare per rendere possibile un dialogo con chi non è musulmano?

Spesso mi capita, nel corso di conferenze pubbliche, di dire: “Quante donne e uomini avete incontrato, nelle ultime settimane, appartenenti a un’altra cultura, di un’altra religione, aventi un’altra tradizione rispetto alla vostra?”. Dobbiamo innanzitutto uscire dai nostri universi apparentemente aperti, ma in realtà piuttosto chiusi. Incontro tanta gente molto aperta, ma sempre solo alle medesime persone! Sono persone aperte dentro un universo chiuso! Occorre adottare invece un atteggiamento di curiosità culturale, religiosa, filosofica. Dico la stessa cosa anche ai musulmani: “Non rimanete chiusi dentro le vostre moschee, o nelle vostre comunità. Uscite”. E poi dobbiamo imparare a incontrarci su terreni che non hanno nulla a che vedere con ciò che siamo. Non incontriamoci solo per dare vita a dei dialoghi interreligiosi! Perché non discutiamo insieme dell’educazione dei nostri figli? O della protezione dell’ambiente? Io credo che l’insistenza eccessiva sulla religione finisca per impedire di parlare di molte questioni essenziali che riguardano l’intera società.

Fonte: Belticino

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