La bufala delle "jihadiste del sesso" in Siria
di Carlo Silini
jihadista presentata come prostituta dai media |
Quello delle presunte prostitute-spose o spose-prostitute tunisine inviate a sollazzare i guerriglieri jihadisti in Siria senza farli peccare è un caso mediatico che ha dell’incredibile. Forse proprio perché di credibile c’è poco. Eppure sulla vicenda di Ines e di altre ragazze che come lei avrebbero accettato lo statuto di spose temporanee – consentito dall’Islam - per soddisfare le voglie dei ribelli siriani, negli ultimi mesi sono stati versati fiumi di inchiostro. Perfino una giornalista di razza come Giuliana Sgrena, la corrispondente di guerra rapita dai terroristi a Baghdad e poi rocambolescamente liberata nel 2005, ne ha avvallato la fondatezza, riproponendo la scorsa primavera sul “Manifesto” la storia di queste promesse spose per matrimoni a tempo (il tempo di far sesso) a ripetizione con militanti anti-Assad.
Ma come è nata quella che con ogni probabilità è solo una suggestiva e pruriginosa leggenda? E come si è giunti a capire che si tratta di una bufala? La prima cosa da capire è che effettivamente la religione musulmana (almeno quella sciita, ndr) consente il matrimonio temporaneo. Pare, anzi, che dopo la vittoria di Ennhada, il partito islamico in Tunisia, la pratica stia proliferando, come spiegava di recente l’attivista tunisina di Human Watch, Amna Guellali. Si tratta, nota Guellali, di un’usanza ereditata dall’Islam sciita e rispolverata dagli studenti salafiti che non hanno i mezzi finanziari per sposarsi per assicurarsi relazioni sessuali “senza peccare”. Visto, poi, che parecchi di loro sognano di impegnarsi nella “liberazione” della Siria, l’ipotesi che effettivamente ci siano delle ragazze, in realtà prostitute, che si prestano a questi “matrimoni” rapidissimi e puramente formali, a molti non deve essere parsa così peregrina. Soprattutto dopo la pubblicazione di un video dalla Siria che mostrava la vendita di una ragazza ai jihadisti (e curiosamente nessuno, all’inizio, ha fatto notare che era stato prodotto dal regime di Assad) e la diffusione della storia di Ines.
La potenza dei social network
Su queste basi si è creato in Tunisia, ma anche in altri Paesi musulmani, il caso della “Jihad sessuale”, fatto proprio e capillarmente amplificato dalla grancassa dei social network. Ne hanno parlato i media nordafricani, ma anche quelli di tutto il mondo. Ne abbiamo trovato tracce anche nei serissimi notiziari della BBC. Di colpo, accanto ad Ines nei media sono spuntati presunti eserciti di “jihadiste”, decine, centinaia di ragazze che avrebbero vissuto più o meno la sua stessa disavventura: contrarre matrimoni temporanei per dar modo di alleviare i bisogni sessuali dei combattenti e, en passant, guadagnarsi il paradiso. Alcuni bene informati hanno perfino sostenuto che queste “combattenti sessuali in nome di Allah” sarebbero state incoraggiate da una fatwa (parere giuridico) dello sceicco saudita Muhammad al-Arifi.
Il caso è montato a tal punto che il 19 settembre scorso, il ministro degli Interni tunisino Lotf Ben Jeddou, ha testualmente sostenuto che “queste giovani donne hanno relazioni sessuali con 20,30,100 jihadisti e dopo i rapporti sessuali avuti in nome di una guerra santa del sesso tornano a casa incinte”.
Ma è molto probabile che buona parte dei media mondiali e perfino il Governo tunisino, questa volta siano caduti in una trappola propagandistica. Così sostiene, perlomeno, una recente inchiesta dal Nouvel Observateur (NO), dalla quale abbiamo tratto buona parte di queste informazioni. I giornalisti del NO si sono ricordati delle basi del loro mestiere e prima di tutto hanno verificato che nelle centinaia di articoli sulla jihad del sesso, i media hanno citato praticamente solo le testimonianze di Ines e al massimo di un altro paio di ragazze come lei “presentate come interviste originali, mentre si trattava di continui copia-incolla di voci arricchiti di link dove si ricopia sul sito vicino lo stesso racconto”. Nel frattempo una giornalista basata in Medio Oriente, Sheera Frenkel – spiega il NO – riesce a scovare una certa Rania, “figlia di genitori tunisini addolorati”, che in realtà era partita in Siria per convinzione, come infermiera, ed era stupefatta nel vedere che le si attribuivano pletore d’amanti, mentre aveva semplicemente raggiunto il futuro marito che si era unito ai combattenti. Senza contare che il famoso sceicco al-Arifi, autore della supposta fatwa, ha fatto sapere che i suoi messaggi Twitter erano stati piratati per nove volte e non aveva mai invitato le donne ad offrirsi per un’inesistente “jihad sessuale”.
Manipolazioni?
Insomma, la vicenda puzza di manipolazione mediatica. Lo sostiene la catena TV Al-Arabiya secondo la quale qualcuno ha preso un’adolescente e l’ha fatta recitare come un’attrice. Quel qualcuno sarebbe l’esercito regolare siriano che poco tempo prima aveva rapito sul cammino per la scuola una ragazza. Secondo Al-Arabiya non ci sono dubbi: il regime di Assad si è inventato la storia di Ines per gettare discredito sui propri nemici ribelli. E così il cerchio si chiude.
Forse. Da giornalisti, a rigore, non possiamo evitare di pensare che anche le dichiarazioni di Al-Arabiya potrebbero far parte di un piano simmetrico per gettare discredito su Assad. Non possiamo saperlo. Ma a questo punto, la vicenda delle soldate del sesso islamico sembra destinata di inabissarsi fra i giochi manipolatori e propagandistici della guerra siriana.
C.S.
Fonte: Corriere del Ticino, 08.01.2014
famiglia intera emigrata in Siria per il Jihad |
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